Induzione del parto: le varie tecniche e quando usarle
Con la consulenza del dottor Sandro Zucca, consulente ginecologo presso l’UO di Ostetricia e Ginecologia dell’Istituto Clinico Città di Brescia abbiamo parlato dell’induzione del parto, quando conviene farla e quando invece è più opportuno un altro metodo.
Secondo il World Health Organization (WHO), l’induzione del parto interessa circa il 20-25% dei parti nei Paesi sviluppati e può essere deciso per motivazioni cliniche, oppure per ragioni di natura personale, professionale o sociale. “In genere, a livello internazionale”, spiega il dottor Sandro Zucca, consulente ginecologo presso l’UO di Ostetricia e Ginecologia dell’Istituto Clinico Città di Brescia, “la fine della gravidanza viene fatta coincidere con la 41esima settimana e cinque giorni, anche se tutto poi dipende dalla precisione con la quale viene datata la gestazione, un fattore di non poca rilevanza”.
Senza dimenticare che circa il 10% delle nascite avviene fisiologicamente oltre questo lasso di tempo, in particolare nelle zone del mondo ancora poco medicalizzate, dove si attende anche fino alla 43esima settimana.
Quando intervenire
“Si parla di induzione con indicazione medica”, sottolinea lo specialista, “se è stato superato il periodo gestazionale, per evitare problemi alla salute del piccolo e della mamma. Ad esempio, quando c’è possibilità di asfissia per il feto, in aumento mano a mano che si supera la 41esima settimana.
E ancora, quando il bambino cresce in modo insufficiente e si ritiene necessario portarlo alla luce per farlo vivere in un ambiente più propizio al suo sviluppo, oppure se è compromessa la funzionalità del cordone ombelicale, a causa di una carenza di liquido amniotico. I rischi per la donna che fanno propendere per questa scelta sono pressione alta, diabete o avvertenze di tipo ostetrico, come la rottura prematura delle membrane, dovuta a infezioni o traumi”.
Alcune gestanti desiderano programmare il parto prima del termine, a partire dalla 38esima settimana in poi, e ciò comporta, secondo le statistiche, una riduzione dei cesarei.
Molte donne lo fanno per questioni professionali o perché il marito non è sempre presente, ma anche perché vivono in zone poco accessibili, quali le piccole isole o le aree di alta montagna, che rendono necessaria una pianificazione logistica. “In questo caso”, conclude il dottor Zucca, “è necessario il consenso informato, alla presenza almeno di un testimone, che può essere il futuro papà. L’opinione della classe medica a riguardo è di rispettare la volontà e l’indirizzo della persona ad autodeterminarsi per quanto possibile, fermo restando il concetto di non nuocere né alla mamma né al figlio”.
Le tecniche: verità e falsi miti
Al contrario del pensiero comune, è bene precisare che non vi è alcuna differenza tra travaglio spontaneo e indotto per quanto riguarda il dolore, il recupero dopo il parto naturale o cesareo e la buona riuscita dell’allattamento.
Cadono anche i falsi miti della tradizione: salire e scendere le scale, avere un’attività sessuale significativa le settimane prima della data presunta del parto, titillare i capezzoli o massaggiare l’addome non sono azioni in grado di accelerare l’arrivo del travaglio.
- Il metodo più utilizzato è l’introduzione in vagina di prostaglandine, in tavolette o supporti con cordicella (una specie di tampax), che possono essere rimossi se si vuole bloccare l’azione di queste sostanze.
- Oppure, con un apposito strumento che rompe il sacco, per fare uscire il liquido amniotico e indurre il travaglio nel giro di qualche ora.
- Il terzo è il più estremo, ovvero il parto cesareo. Una soluzione scelta quando ci sono ragioni mediche importanti.