Crepacuore: a rischio infarto anche le donne

Caterina Mora
  • Dott. in Biologia della nutrizione
18/01/2021

Recenti studi hanno messo in discussione la prognosi del “crepacuore” o “sindrome del cuore spezzato”. Sebbene fino a poco tempo fa si ritenesse una condizione patologica “benigna” le ricerche più recenti hanno sottolineato che questa sindrome può raggiungere lo stesso tasso di mortalità dell’infarto.

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Il nome scientifico è Sindrome di Takotsubo, ma tra gli specialisti è generalmente chiamata cardiomiopatia da stress. Per tutti noi è riconducibile a un’unica parola: “crepacuore”.

Crepacuore: che cos’è?

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Comunque la si chiami, la patologia, associata spesso a disturbi psichiatrici (depressione), colpisce soprattutto le donne prevalentemente dopo uno stress emotivo (un lutto nel 30% dei casi), o fisico (come un intervento chirurgico nel 36%).

Si contraddistingue per una particolarità: lo stato delle coronarie al momento della coronografia d’urgenza, l’esame diagnostico effettuato in emergenza per sospetto infarto miocardico.

Queste, infatti non presentano alcun restringimento (stenosi) apparendo, al contrario, stranamente “normali”. È invece il cuore a mostrare una forma alterata, a “palloncino”,  simile al vaso (tsubo) con cui i giapponesi raccolgono i polpi (tako).

Crepacuore o sindrome del cuore spezzato come un infarto

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Sebbene ricerche precedenti ne avessero chiarito la fisiopatologia (cause, meccanismi), un nuovo studio internazionale, il primo su questa sindrome, ne mette in evidenza le somiglianze con l’infarto sia per la sintomatologia, (dolore al petto, affanno improvviso), sia per il rischio di mortalità.

Lo studio è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine ed è giunto proprio in occasione della Giornata Mondiale del cuore, 29 settembre.

Gli studiosi dell’Università Cattolica del Policlinico Gemelli di Roma che hanno partecipato allo studio multicentrico, hanno scoperto, infatti, che quanto ritenuto fino ad oggi un misterioso ma “benignoattacco al cuore, può in realtà raggiungere la stessa incidenza mortale che si ha nei pazienti ricoverati per infarto (5%).

 “Nonostante le disfunzioni microvascolare e miocardica siano reversibili, la prognosi per questi pazienti è simile a quella dei pazienti con infarto, cioè, con possibilità di choc cardiogeno (una condizione grave nella quale il cuore non pompa sufficiente sangue all’organismo) nel 12% dei casi e di morte nel 5%

dichiara la dottoressa Leda Galiuto, docente di cardiologia presso l’Università Cattolica del Policlinico Gemelli di Roma, insieme al professor Filippo Crea, direttore dello stesso Dipartimento, a capo del team italiano che ha partecipato allo studio.

L’indagine, il cui obiettivo era far luce sull’evoluzione della malattia cardiaca, ha coinvolto complessivamente 26 centri di 9 Paesi tra Europa e Stati Uniti, ha esaminato ben 1.750 pazienti e apre la strada a cure più approfondite.